Quella foto durò in casa più di tre anni, io nel frattempo mi ero abituato ad andare a scuola, il freddo a Foggia era sempre in agguato e gli scioperi fioccavano come la neve. Nel frattempo avevo capito chi era quel signore incastonato nella foto, ma non riuscii a capire perché un bel giorno mio padre la staccò dal muro, dopo che per tanto tempo aveva illuminato i nostri giorni, e impiegai parecchio per riuscire a comprendere una parola che mio padre, quando parlava con i suoi compagni, usava sempre più spesso: destalinizzazione. Adesso riesco a dirla tutta, ma allora certamente non avevo nessuna capacità di ripeterla, immaginatevi di capirla. Però avevo capito che Stalin non era morto il giorno in cui mia madre pianse la sua morte, ma quel giorno stesso in cui venne defisso il quadro. Croce et amen.
Ma non durò molto il segno più chiaro sul muro, perché già a settembre mio padre vi appese la stessa cornice dove prima stava Stalin, ora con la foto di un uomo col viso rotondetto, senza la fitta chioma di chi lo aveva preceduto, anzi era piuttosto calvo e senza i suoi baffoni d’acciaio, certamente meno altero e più dimesso del suo predecessore. Ma questa volta non pensai ad un mio nuovo parente, ma sicuramente ad un compagno lontano, nostra nuova guida politica.