Mentre la campagna è in corso, il 1 febbraio 1945 il secondo governo Bonomi emana il decreto luogotenenziale n. 23, “Estensione del diritto di voto alle donne”, andando incontro alle richieste del Comitato pro-voto e alle indicazioni dei partiti di massa, soprattutto del Pci e della Dc, ansiosi di misurare il proprio consenso. Un evento così decisivo per la storia e il futuro dell’Italia viene accolto in un clima dove prevalgono indifferenza e critiche, nel quale il voto alle donne appare una concessione scontata in una fase storica che prevede un nuovo inizio. Il timore inespresso è che una discussione politica profonda nell’universo femminile sul tema della cittadinanza inneschi pericolosi cambiamenti nelle relazioni di genere in famiglia e nella società. L’interruzione della mobilitazione suffragista è inevitabile ma non mancano voci di dissenso sul testo del decreto per l’assenza di riferimenti al voto passivo. Solo l’anno successivo col decreto n. 74 del 10 marzo 1946 “Norme per le elezioni dell’Assemblea Costituente” viene sancita definitivamente l’eleggibilità delle donne. Intanto 13 donne sono nominate alla Consulta e alcune sono candidate alle elezioni amministrative del marzo 1946.
Il 10 febbraio 1945 il Comitato pro-suffragio decide di celebrare l’acquisizione del diritto di voto nell’Aula magna del Liceo Visconti di Roma.
Il riconoscimento del diritto di voto produce un’immediata reazione della stampa. Critiche, derisioni e sberleffi esprimono, come era accaduto nei primi anni del secolo quando il movimento suffragista aveva raggiunto visibilità, l’anima profondamente misogina del Paese.